Storia letteraria Trapanese
TRAPANI. "LE GEMME E GLI SPETTRI" DEL NOVECENTO LETTERARIO TRAPANESE"
9/17
Della cultura siciliana del secolo XIX, Titone scrisse che vi concorreva "(...) un certo spirito a priori e per partito preso polemico, che deriva da un inconfessato senso di inferiorità. Poiché sono gli altri a creare le mode o gli indirizzi letterari o filosofici, si vuol mostrare di non essere da meno. Ne deriva una creduta originalità che si cerca di sostenere a ogni costo e contro ogni possibile evidenza. (...). L'anima siciliana - poi aggiunge - non è fatta né per le astrazioni né per le sublimi elevazioni spirituali. Lo dimostra lo stesso dialetto, così colorito, concreto, riccamente onomatopeico, ma per altro verso povero di sfumature per ciò che non sia sensibile e tangibile: per ciò, intendo, che rimanga nella pura sfera del pensabile. Lo dimostra altresì l'assenza di una vera religiosità o di una interiore vita religiosa. (...) questa letteratura è fatta di cose chiare e nette più che di sfumature o di idee. E' un vedere più che un sentire o un pensare (...). Sullo stesso piano deve porsi il costante rifiuto delle ideologie, che si esprime in un generale scetticismo o in un 'incredulità preconcetta. (...) la conquista della "roba", che è in Sicilia più della terra o del diritto di proprietà: è la proiezione dell'anima (...). Per non diverso motivo si respinge come inconsistente astrazione l'idea stessa dello Stato o di una società o di un bene comune, che vada al di là del mio e del tuo, e a tutto ciò si sostituisce l'uomo, il capo tribù, la morale tribale (...). Bisogna dunque distinguere tra quella che veramente può dirsi provinciale arretratezza e i caratteri costanti (...)" (V. Titone, Introduzione al Prospetto della storia letteraria di Sicilia del secolo decimottavo di D. Scinà, 1969). Ci sembra, con ciò, di essere molto a ridosso del cuore della "trapanesità", anche letteraria. Bisognerebbe tenerne conto, dunque, se si volesse provare a indagare e a tracciare le possibili ragioni della marginalità, ma anche della sottovalutazione, in qualche caso, dell'attività artistico-letteraria della e nella nostra provincia. Si potrebbe ulteriormente precisare la precipua e spiccata indigena vocazione utilitaristica: anche l'"intellettuale", sfornito della molla del guadagno, raramente, qui, porrebbe mano all'opera. Tale understatement delle cosiddette attività creative, si legherebbe, in altri termini, alla ricerca di forme di "sicurezza" e di sonante retribuzione, e sarebbe una costante "culturale"; mentre l'ingegno astratto, non funzionale ad un'impresa stricto sensu economica, verrebbe, al più, ritenuto un optional, magari grazioso ma poco allettante. Quanto tale "predisposizione" strida rispetto alla aleatorietà e alla sfuggevolezza delle attività cosiddette artistiche e, specialmente, letterarie, è facile intendere. Il "richiamo" della scrittura sembra, così, più agevolmente incontrarsi col cimento giornalistico, elzeviristico, erudito, in cui, seppure il lucro scarseggi, è pur possibile un immediato ritorno nella moneta della vanagloria, del prestigio sociale o, in qualche caso, nelle sembianze del potere. La letteratura - e si potrebbe forse dire la cultura tout court - resterebbe, perciò, intesa alla stregua del superfluo, dell'effimero, se non del vaneggiamento o, nelle ipotesi estreme, della deviazione morale. E su tali argomenti, all'inizio dell'Ottocento, vergò carte arroventate - e pressoché sconosciute - il trapanese Giuseppe Marco Calvino. Altro dato "antropologico" inibitorio, denunciato anche da Niccolò Burgio nelle sue intriganti Lettere, potrebbe essere ritenuto l'ipercriticismo, magari sotterraneo, strisciante, talvolta disonesto, al limite mascherato da indifferenza, da gelido e premeditato silenzio, nei riguardi di chi osi sfidare l'aurea mediocrità. Al di là delle implicazioni di ordine storico e sociologico, la ricerca dei "cromosomi" letterari (o antiletterari) trapanesi ci riporta direttamente alla pratica, al modus operandi degli scrittori. In molti di essi, per esempio, si potrebbero cogliere una perniciosa deriva dilettantesca e pressapochista (Mirabella Corrao, Galfano, Certa, Scammacca, Napoli, i nostri futuristi, Giuseppe Messana e così via), una particolare propensione a ridurre la letteratura a "fatto privato", esclusivo, consolatorio, intimistico (Sardo, Fiorentino, Marrone, Tesoriere, De Vita, Agueci e via dicendo). La loro opera, spesso, sembra ratificare uno sterile stimmung di attendismo o, peggio, di fatalismo e di resa (Marrone, Agueci, Tosto De Caro, Blunda, Caracci e altri), corredato da indolenza, snobismo o approssimazione nella cura della proiezione esterna del proprio lavoro: quando non si instaura la camarilla, il comparaggio, su di loro sembra campeggiare un greve marchio di reclusione, la condanna quasi insuperabile a farsi riconoscere nei panni di una figura (quella dello scrittore) che, spesso, manca di statuto perfino nel loro stesso immaginario.
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