Della
cultura siciliana del secolo XIX, Titone scrisse che vi concorreva
"(...) un certo spirito a priori e per partito preso polemico,
che deriva da un inconfessato senso di inferiorità. Poiché sono
gli altri a creare le mode o gli indirizzi letterari o filosofici,
si vuol mostrare di non essere da meno. Ne deriva una creduta
originalità che si cerca di sostenere a ogni costo e contro ogni
possibile evidenza. (...). L'anima siciliana - poi aggiunge -
non è fatta né per le astrazioni né per le sublimi elevazioni
spirituali. Lo dimostra lo stesso dialetto, così colorito, concreto,
riccamente onomatopeico, ma per altro verso povero di sfumature
per ciò che non sia sensibile e tangibile: per ciò, intendo, che
rimanga nella pura sfera del pensabile. Lo dimostra altresì l'assenza
di una vera religiosità o di una interiore vita religiosa. (...)
questa letteratura è fatta di cose chiare e nette più che di sfumature
o di idee. E' un vedere più che un sentire o un pensare (...).
Sullo stesso piano deve porsi il costante rifiuto delle ideologie,
che si esprime in un generale scetticismo o in un 'incredulità
preconcetta. (...) la conquista della "roba", che è in Sicilia
più della terra o del diritto di proprietà: è la proiezione dell'anima
(...). Per non diverso motivo si respinge come inconsistente astrazione
l'idea stessa dello Stato o di una società o di un bene comune,
che vada al di là del mio e del tuo, e a tutto ciò si sostituisce
l'uomo, il capo tribù, la morale tribale (...). Bisogna dunque
distinguere tra quella che veramente può dirsi provinciale arretratezza
e i caratteri costanti (...)" (V. Titone, Introduzione al Prospetto
della storia letteraria di Sicilia del secolo decimottavo di D.
Scinà, 1969). Ci sembra, con ciò, di essere molto a ridosso del
cuore della "trapanesità", anche letteraria. Bisognerebbe tenerne
conto, dunque, se si volesse provare a indagare e a tracciare
le possibili ragioni della marginalità, ma anche della sottovalutazione,
in qualche caso, dell'attività artistico-letteraria della e nella
nostra provincia. Si potrebbe ulteriormente precisare la precipua
e spiccata indigena vocazione utilitaristica: anche l'"intellettuale",
sfornito della molla del guadagno, raramente, qui, porrebbe mano
all'opera. Tale understatement delle cosiddette attività creative,
si legherebbe, in altri termini, alla ricerca di forme di "sicurezza"
e di sonante retribuzione, e sarebbe una costante "culturale";
mentre l'ingegno astratto, non funzionale ad un'impresa stricto
sensu economica, verrebbe, al più, ritenuto un optional, magari
grazioso ma poco allettante. Quanto tale "predisposizione" strida
rispetto alla aleatorietà e alla sfuggevolezza delle attività
cosiddette artistiche e, specialmente, letterarie, è facile intendere.
Il "richiamo" della scrittura sembra, così, più agevolmente incontrarsi
col cimento giornalistico, elzeviristico, erudito, in cui, seppure
il lucro scarseggi, è pur possibile un immediato ritorno nella
moneta della vanagloria, del prestigio sociale o, in qualche caso,
nelle sembianze del potere. La letteratura - e si potrebbe forse
dire la cultura tout court - resterebbe, perciò, intesa alla stregua
del superfluo, dell'effimero, se non del vaneggiamento o, nelle
ipotesi estreme, della deviazione morale. E su tali argomenti,
all'inizio dell'Ottocento, vergò carte arroventate - e pressoché
sconosciute - il trapanese Giuseppe Marco Calvino. Altro dato
"antropologico" inibitorio, denunciato anche da Niccolò Burgio
nelle sue intriganti Lettere, potrebbe essere ritenuto l'ipercriticismo,
magari sotterraneo, strisciante, talvolta disonesto, al limite
mascherato da indifferenza, da gelido e premeditato silenzio,
nei riguardi di chi osi sfidare l'aurea mediocrità. Al di là delle
implicazioni di ordine storico e sociologico, la ricerca dei "cromosomi"
letterari (o antiletterari) trapanesi ci riporta direttamente
alla pratica, al modus operandi degli scrittori. In molti di essi,
per esempio, si potrebbero cogliere una perniciosa deriva dilettantesca
e pressapochista (Mirabella Corrao, Galfano, Certa, Scammacca,
Napoli, i nostri futuristi, Giuseppe Messana e così via), una
particolare propensione a ridurre la letteratura a "fatto privato",
esclusivo, consolatorio, intimistico (Sardo, Fiorentino, Marrone,
Tesoriere, De Vita, Agueci e via dicendo). La loro opera, spesso,
sembra ratificare uno sterile stimmung di attendismo o, peggio,
di fatalismo e di resa (Marrone, Agueci, Tosto De Caro, Blunda,
Caracci e altri), corredato da indolenza, snobismo o approssimazione
nella cura della proiezione esterna del proprio lavoro: quando
non si instaura la camarilla, il comparaggio, su di loro sembra
campeggiare un greve marchio di reclusione, la condanna quasi
insuperabile a farsi riconoscere nei panni di una figura (quella
dello scrittore) che, spesso, manca di statuto perfino nel loro
stesso immaginario. |