Le loro madri, donne
kurde vissute in montagna, si trovarono nell’acqua mostruosa
di quel mare, non avevano sotto i piedi che fuga e rovina, circondate
orribilmente dalle onde sminuzzate dal vento. Scomparivano, riapparivano,
s’immergevano e risalivano lanciando urla disperate; chiamavano
i figlioli, tendevano le braccia nelle tenebre, ma nessuno le
sentiva, e mentre il rollio dell’abisso le trascinava via
sembrò loro che tutta quell’acqua, quel mare, fossero
odio.
Il vecchio kurdo
dai capelli candidi, quel dannato della civiltà, afferrò
un bambino che stava affondando, si sforzò di nuotare ma
non lo seppe fare, tentò di sostenersi, combatté
l’inesauribile e bevette l’amaro mentre l’enormità
giocava con la sua agonia poi, con quella speciale lucidità
e nitore che acquistano i contorni delle cose dal loro dialogo
con il buio imminente, capì che morire non era niente;
era spaventoso non vivere, e, esausto, fluttuò per sempre
nelle lugubre profondità che lo inghiottirono.
Molti altri tentarono
di rimanere a galla mentre l’istinto di conservazione urlava,
e l’io privo d’occhio scalciava allontanando chi cercava
di aggrapparsi. E ognuno per sé, assistettero alla demenza
di quel mare nuotando in avanti, immensi sonnambuli di un sogno
naufragato, prima di affondare a poco a poco nelle gelide tenebre
in cui scompaiono tante teste sfortunate nella tetra marcia dei
popoli.
In quella catastrofe
del genio umano alle prese con l’innominabile, perirono
quarantatre persone.
Aleksandra si trovò
in acqua; dapprima, tutto ciò che provò era incoerente,
tumultuoso, e il cuore le batteva anche nei denti. Poi, tutto
in lei si mise a lavorare, l’istinto che fiuta e l’intelligenza
che organizza. Portò subito un braccio al petto e serrò
contro di sé la piccola Valbona che era rimasta sotto il
cappotto abbottonato della madre. Aleksandra, nata e cresciuta
in una città marinara, si distese sulla superficie dell’acqua,
si sbottonò il pesante cappotto e se ne liberò,
lasciando sul petto Valbona piangente e presa da un tremito. Si
sbarazzò di tutti gli indumenti che potevano appesantirla
poi chiamò forte:
— Gezim!
Il nome di suo marito
si spense nel buio senza neppure svegliare un’eco, e a Aleksandra
parve che l’investisse come un vento di sciagura. Tenette
a lungo le labbra convulsamente contratte per arrestare i singhiozzi,
poi chiamò di nuovo:
— Gezi-i-im,
sono qui, Gezi-i-im, dove sei-i-i.
Il silenzio rimase profondo, come prima, lasciando Aleksandra
con gli occhi spalancati a fissare il buio, lo spirito oppresso
dal suo carico di dolore.
Si lasciò
trasportare dalla corrente, economizzando le sue forze, Valbona
sul petto, attaccata al seno con quella toccante fiducia dei bambini
che può essere sempre ingannata senza mai scoraggiarsi.
La lunga notte giungeva
ormai al termine; il crepuscolo imbiancava nel mare le creste
delle piccole onde e basse filacce di nebbia sottile strisciavano
sulla superficie dell’acqua e se ne staccavano come folate
di fumo quando Aleksandra scosse la sua bimba e la chiamò
in vano più volte. Rimase con gli occhi fissi su colei
che non vedeva più gemendo di un gemito discontinuo che
usciva da una bocca irrigidita con i denti serrati, un gemito
inarticolato e soffocato, sempre accompagnato da un movimento
desolato del capo, senza che l’espressione del volto si
alterasse come se le sue fattezze si fossero raggelate dalla sofferenza;
ma le lacrime, questo primo sfogo dei grandi dolori, non veniva
a Aleksandra immersa com’era in quella pesante sensazione
di perdita e di dolore dentro la quale non riusciva a distinguere
nient’altro e che faceva tremare tutte le sue idee rendendola
quasi folle. Poi, con le pupille vaghe, colme dello sbalordimento
della violenza del suo presente, guardò davanti a sé.
Aveva alle spalle il sole che si stava appena alzando e fluttuava
un misero chiarore crepuscolare, vide sull’orizzonte una
gigantesca falesia che si stagliava severa e livida, con alcune
nuvole bassissime che sembravano appoggiate su di essa formando
un effetto particolarmente sinistro, e, per una sorta di penetrazione
quasi fisica, quel funereo profilo aggiunse allo stato violento
della sua psiche un che di lugubre. Così, con una progressione
impercettibile,la sensazione di perdita si trasformò in
una disperata consapevolezza di tutto ciò che era andato
disperso…Pianse abbracciando straziata il corpicino assiderato
di Valbona mentre un vento non forte girava intorno per un faraglione
con un suono sordo simile ad un basso e lento mormorio gonfio
di tristezza. Poi un ineffabile sorriso si diffuse sulle sue labbra
illividite e una grinza triste solcò la sua guancia, strinse
al cuore Valbona e si lasciò inghiottire da quel mare globale
dove milioni di persone vivono così, sommerse6.
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