Senza guardare Gezim, Aleksandra portò il thermos alle
labbra ma il tè le si fermò in gola, come se stesse
soffocando, e le gocciolò fuori della bocca.
Durante questo tempo
interminabile, Fatmir, l’apprendista, si era limitato ad
eseguire le istruzioni di Imer che, ormai, teneva la testa fra
le mani, immerso nelle sue elucubrazioni. Si alzò di scatto
e con atteggiamento di bella fierezza fissò l’immenso
mare da dominatore, ruppe il silenzio ed esclamò con un
sorriso di sprezzo che gli errava sulle labbra:
— Io non temo
il mare, io vi salverò!
Quel piccolo macchinatore
d’espedienti, con gli occhi che dardeggiavano genialità,
staccò la chiave dal contatto, lo smontò, fece toccare
alcuni fili elettrici e il trabocchetto della salvezza si era
improvvisamente aperto sotto il gommone facendo udire il ronzio
dei motori.
E’ più
facile immaginare che descrivere quello che passò nei cuori.
Gli occhi della donna kurda che prima piangeva si riempirono di
gioia, il viso ancora inondato di lacrime, e parlando in kurdo
essa si fece avanti verso Fatmir, lo strinse a sé e gli
carezzò i capelli. Erano gesti così espressivi che
non occorreva aggiungere parola, e Fatmir la comprese benissimo
come se ella avesse pronunciato le parole in albanese.
Prima di ripartire, nuvole nere si accumularono riempiendo tutto
il cielo, e il vento venne a gemere sopra il mare. Imer guardò
l’orizzonte buio e disse:
— Ci stanno
aspettando vicino Santa Cesarea Terme e dovete assolutamente sbarcare
prima dell’alba; siamo in ritardo e il mare è cambiato
ma, con l’aiuto di Dio ce la faremo.
Il gommone, circondato
dall’oscurità, ripartì spinto da entrambi
i motori. Imer era al timone in piedi accanto a Gezim, ma non
si parlavano; forse, nella regione più vaga della loro
mente, facevano dei raffronti fra quell’orizzonte minaccioso
e la loro esistenza.
I corpi dei viaggiatori
si erano serrati nel freddo gli uni contro gli altri alla ricerca
di tepore e molti, sfiniti, si addormentarono ma il loro sonno
non durò a lungo perché il gommone lanciato nella
distesa lugubre urtò contro un ostacolo. Nessuno seppe
che cosa fosse e si trovarono tutti catapultati in acqua.
Il corpo dello scafista,
per inerzia, sbatté violentemente contro il timone, e Imer
perdette i sensi rimanendo tuttavia nello scafo in vetroresina
squarciato che s’inclinò rapidamente imbarcando acqua
a causa del contemporaneo scoppio della parte pneumatica, e sotto
il peso dei motori s’inabissò trascinandolo con sé.
Sulla superficie dell’acqua si formarono oscuri cerchi concentrici,
un tremito, poi il nulla.
Gezim invece era
finito sotto le eliche dei motori che nitrivano come cavalli imbizzarriti.
Tentò di difendersi emergendo e si lasciò fluttuare
sulla superficie dell’acqua, l’addome e il petto indicibilmente
lacerati, il respiro intermittente tagliato da un rantolo. Aprì
lentamente gli occhi, dove si vedeva già apparire la cupa
profondità della morte, e vide un cielo tenebroso, simile
ad un infinito sudario; emise un grido e solo la notte conobbe
il segreto delle sue convulsioni mentre scompariva sott’acqua.
Nel contempo, i
flutti si gettarono i bambini l’un l’altro. I loro
miserabili corpicini erano punti nell’immensità delle
onde, tendevano le piccole manine ma afferravano il nulla chiamando
la madre con la voce rotta dall’asma degli ultimi respiri
e spalancando tanto d’occhio con un’espressione che
nessuna lingua umana potrebbe descrivere. Poi, paralizzati dal
freddo senza fondo, loro, povera forza subito esaurita, si lasciarono
fare, si lasciarono andare; si spensero nell’immensità
di quel mare come si perdono i cerchi formati nell’acqua
e i loro corpi si depositarono nella temibile fossa comune come
tanti birilli, disponibili per le partite giocate dai potenti.
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