Aleksandra sentì qualcosa dentro di sé, in profondità
gridare di panico e un brivido le passò per il corpo come
un presagio di morte, e nella sua mente sconvolta cominciava il
ribollio di mille congetture che riempivano di sinistri bagliori
i suoi occhi. Si chinò su Valbona che la guardava come
un uccellino pieno di buone intenzioni, poi tese i muscoli della
schiena e del volto per tenere a bada il tremito e vincere il
senso di terrore che l’aveva pervaso, e, dopo aver ripreso
un certo dominio sulla propria angoscia domandò a Gezim:
— E l’altro
motore?
— Quello dovrebbe
funzionare ancora, non è stato usato, ma non possiamo ripartire
senza aggiustare quello in avaria, è troppo rischioso non
averne uno di riserva.
Aleksandra si voltò
verso Imer, vide che stava maneggiando il fuoribordo guasto sotto
la luce di una torcia che Fatmir teneva in mano, e le sembrò
che la morsa di ferro che le stringeva il cuore da qualche minuto
si allentasse.
Annottava e soffiava
un debole vento freddo.
La piccola Valbona
assunse il suo pasto con un’aria tanto conciliante che pareva
chiedesse addirittura scusa al biberon per la libertà che
si prendeva di popparlo, poi la madre la protesse dal freddo,
sistemandola fra il petto e il cappotto abbottonato.
Dopo più
di un’ora di tentativi, Imer aveva detto in italiano, con
una smorfia, come si ricordasse l’estrazione di un dente:
— Un brutto
affare — poi interpellò tutti con uno sguardo pieno
delle energie della disperazione. Fu quasi un’esplosione:
— Questo fottuto giapponese non ne vuole sapere di riavviarsi
e siamo più vicini all'Italia che a Valona. Fanculo, se
siete d’accordo continueremo il viaggio con un solo fuoribordo,
ma pregate per il mio ritorno a casa.
Joshua tradusse
in inglese a Salah che, a sua volta, tradusse in kurdo. Dapprima
ci fu un breve silenzio perché le violenze del destino
hanno questo di particolare, esse ci strappano dal fondo delle
viscere la natura umana; poi qualcuno parlò in nome di
tutti con aria di superiore saggezza:
— Partiamo,
fratello. Il Gran Dio ti farà sicuramente grazia durante
il tuo ritorno.
Imer girò
la chiave e premette il pulsante per avviare il fuoribordo…Provò
una seconda volta, poi una terza…Bestemmiò e si fece
smarrito tingendosi a poco a poco di spavento, il corpo agitato
da un tremito impercettibile, facendo sprigionare nel gommone
una sorta di bruma visionaria, e l’allucinazione della catastrofe
s’impadronì di tutti spalancando precipizi pieni
di notte.
Lo scafista tornò
a maneggiare i motori e a controllare l’impianto elettrico,
e nei suoi occhi illuminati dalla torcia si vedevano passare frequenti
scatti d’impazienza.
Passò molto
tempo e i cuori erano oppressi.
Una donna kurda
aveva messo le braccia conserte, lasciandosi un po’ oscillare
avanti e indietro poi fu sopraffatta da un accesso incontenibile
di pianto angosciato e cominciò a parlare alle altre donne
con un’aria insensata, grave e straziante; piegata in due,
scossa dai singhiozzi, accecata dalle lacrime, torcendosi le mani
e tossendo di una tosse secca e breve. Molti bambini piansero
aggrappandosi alle loro madri. Accanto a Aleksandra sedeva il
vecchio kurdo dai capelli candidi e dalle scosse delle sue spalle
lei vide che stava piangendo; un pianto silenzioso, pianto terribile.
Si sentì colpita dal suo dolore cupo e taciturno, e tutte
queste cose, realtà piene di spettri, fantasmagorie piene
di realtà, avevano finito per crearle una sorta di condizione
interiore quasi inesprimibile. Il cuore le mancò di nuovo,
sopraffatto da palpiti frenetici, quasi di terrore, come se avesse
appena perso qualcosa o stesse per perderla per sempre. Si voltò
verso Gezim e gli disse con una voce che era più vicina
all’urlo che alla parola:
— Moriremo
tutti, moriremo tutti, te l’avevo detto, te l’avevo
detto…
— Zitta, stai
zitta, sei stata tu a portarci iella — replicò Gezim
aspro, scotendo contro di lei l’indice.
Aleksandra tacque
comprimendosi il petto con la mano, come per impedire il prorompere
della tempesta che le infuriava dentro. Solo un gemito le uscì
dalle labbra e più volte i suoi occhi neri luccicarono
e poi si spensero, come fiamme soffocate, nella notte. Infine
venne il momento che ella serrò le labbra e inghiottì
profondamente, ma due lacrime le rimasero negli occhi e Gezim
le vide cadere e scivolare giù, lentamente, sulle guance,
una per parte. L’abbraccio addolorato, poi le porse il thermos
del tè e le disse con la voce ridotta ad uno sgomentato
sussurro:
— Bevi, Aleksandra…perdonami.
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