Inediti - I vostri testi
In questa pagina potrete leggere i migliori lavori pervenuti al nostro sito. Stazioneranno per una o più settimane, poi cederanno il posto ad altri scritti meritevoli.
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Lo scafista accelerò, finse una manovra per passare di prua allo “Squalo” poi decelerò bruscamente lasciandosi superare da quel siluro galleggiante in grado di raggiungere i cinquanta nodi, e lo superò di poppa. La manovra riuscì ma le due motovedette della Finanza sfrecciavano ormai parallelamente. In mezzo, il gommone. Nuovamente costretto ad avvicinarsi alla costa, inseguito a breve distanza dai due comandanti, senza turbamento e con il plauso della coscienza, attenti ad evitare qualsiasi abbordaggio, qualsiasi “incidente”, in acque albanesi5.

Il gommone fuggitivo compì una nuova manovra brusca, imprevista e si fermò del tutto illuminando con un faro le due motovedette della Finanza.

— Figli di un cane! — Esclamò l’ufficiale che aveva il comando tattico dell’operazione — Ci hanno giocato, era un’esca, un diversivo.

E avvisò immediatamente la centrale operativa della Finanza di Durazzo d’allertare Otranto: il radar segnalava altri “bersagli mobili” che puntavano sul Salento, ormai fuori portata.

Il poliziotto albanese che si trovava a bordo della motovedetta italiana comunicò l’accaduto all’unico motoscafo albanese in zona, e rimase per un bel po’ a fissare la sua radio ridacchiando con un misto di godimento e ammirazione che gli tingevano il viso di rosso fuoco.


Durante l’ultima fase dell’inseguimento, Imer ricevette via radio il segnale convenuto; il gommone, carico di profughi kurdi, di migranti e di qualche avventuriero, percorse un tratto del fiume Vjosa, superò la zona della palude che a quel tempo era desolata, opprimente e solitaria poi entrò nella laguna di Valona e cominciò a planare, fronteggiato dall’immensa notte. Ora, davanti ai condannati all’esodo e alla sopravvivenza c’era una muraglia orizzontale, una muraglia d’acqua e di buio ma qualcuno, con calda fantasia, già si figurava la vita che trascorrerebbe in Italia, abbellendola di minuti particolari che lo facevano trasalire di gioia mentre lo splendore, la ricchezza e la felicità gli apparivano alla rinfusa, in una sorta di irraggiamento chimerico. A molti altri invece, da sempre ignudi sotto la brezza sferzante della sventura, si ridestarono in petto con maggiore dolore tutti i sentimenti così crudelmente feriti, tutta la vergogna e l’angoscia, ma conservarono il silenzio solenne che si erano portato dalle case distrutte nella terra negata.

Il gommone si stava allontanando sempre di più dalla costa, ma la mente di Aleksandra non poteva abbandonare il posto con la stessa rapidità, e mentre la piccola Valbona dormiva profondamente nelle sue braccia fatte di tenerezza, lei si voltò verso Valona, prima che la buia pianeggiante distanza la inghiottisse non lasciando più nulla di visibile ai suoi occhi. Sulla sua destra vide una catena di montagne, dolci e maestose, sulla sua sinistra invece il paesaggio era più morbido e una lunga striscia di terra piatta con due gobbe finali separava il mare dalla gran laguna. Valona, trapuntata da minuscoli punti luminosi, esibiva, fiera, le sagome dei palazzoni in costruzione; e mentre i ricordi dell’infanzia affollavano alla mente di Aleksandra, tentò di sorridere ma le sue labbra si rifiutarono e rivide il volto che sua madre Albana levò al cielo, le mani congiunte e tremanti, e l’angoscia di tutta la persona nell’apprendere che sua figlia stava per attraversare il mare come aveva fatto Enver. Allora, una lacrima che si era a poco a poco raccolta nell’angolo delle palpebre, fattasi abbastanza grossa perché cada, le rigò la guancia poi si fermò in bocca e Aleksandra ne sentì il sapore amaro. Chiuse gli occhi per non vedere o piuttosto per abbandonarsi all’onda dei sentimenti frammisti d’infantili ricordi e di speranze informi come fantasmi che la vista di Valona le suscitava, ma nella ressa dei suoi pensieri, in gara con il sommovimento del gommone, sempre in primo piano rimanevano il mare e le sue preoccupazioni. Tornò più volte, con un incessante singhiozzo nel cuore, a volgersi verso la terra sempre più lontana, con Valbona stretta al petto, prima di addormentarsi, non proprio del tutto da non udire il ronzio del motore e le voci, senza distinguere le parole.


Ridestatasi a mezzo da quel lungo e scomodo dormiveglia, scoperse che il gommone era fermo nella distesa lugubre. Alla prima si credette vittima di un’allucinazione, poi la ragione la convinse della paurosa realtà mentre, ad occhi spalancati nella luce di una sottile falce di luna, girava lo sguardo per la galleria delle facce dall’espressione così dura che nasce dall’abitudine alla sofferenza.

— Perché siamo fermi? — Domandò a Gezim mentre s’impadroniva di lei la strana sensazione che ciò fosse già accaduto prima, in un tempo indeterminato, e che sapeva in anticipo quanto stava per dire.

— Abbiamo un motore in avaria — rispose Gezim con una voce arrochita dall’angoscia e che si sentiva appena.