Lo scafista accelerò,
finse una manovra per passare di prua allo “Squalo”
poi decelerò bruscamente lasciandosi superare da quel siluro
galleggiante in grado di raggiungere i cinquanta nodi, e lo superò
di poppa. La manovra riuscì ma le due motovedette della
Finanza sfrecciavano ormai parallelamente. In mezzo, il gommone.
Nuovamente costretto ad avvicinarsi alla costa, inseguito a breve
distanza dai due comandanti, senza turbamento e con il plauso
della coscienza, attenti ad evitare qualsiasi abbordaggio, qualsiasi
“incidente”, in acque albanesi5.
Il gommone fuggitivo
compì una nuova manovra brusca, imprevista e si fermò
del tutto illuminando con un faro le due motovedette della Finanza.
— Figli di
un cane! — Esclamò l’ufficiale che aveva il
comando tattico dell’operazione — Ci hanno giocato,
era un’esca, un diversivo.
E avvisò
immediatamente la centrale operativa della Finanza di Durazzo
d’allertare Otranto: il radar segnalava altri “bersagli
mobili” che puntavano sul Salento, ormai fuori portata.
Il poliziotto albanese
che si trovava a bordo della motovedetta italiana comunicò
l’accaduto all’unico motoscafo albanese in zona, e
rimase per un bel po’ a fissare la sua radio ridacchiando
con un misto di godimento e ammirazione che gli tingevano il viso
di rosso fuoco.
Durante l’ultima fase dell’inseguimento, Imer ricevette
via radio il segnale convenuto; il gommone, carico di profughi
kurdi, di migranti e di qualche avventuriero, percorse un tratto
del fiume Vjosa, superò la zona della palude che a quel
tempo era desolata, opprimente e solitaria poi entrò nella
laguna di Valona e cominciò a planare, fronteggiato dall’immensa
notte. Ora, davanti ai condannati all’esodo e alla sopravvivenza
c’era una muraglia orizzontale, una muraglia d’acqua
e di buio ma qualcuno, con calda fantasia, già si figurava
la vita che trascorrerebbe in Italia, abbellendola di minuti particolari
che lo facevano trasalire di gioia mentre lo splendore, la ricchezza
e la felicità gli apparivano alla rinfusa, in una sorta
di irraggiamento chimerico. A molti altri invece, da sempre ignudi
sotto la brezza sferzante della sventura, si ridestarono in petto
con maggiore dolore tutti i sentimenti così crudelmente
feriti, tutta la vergogna e l’angoscia, ma conservarono
il silenzio solenne che si erano portato dalle case distrutte
nella terra negata.
Il gommone si stava
allontanando sempre di più dalla costa, ma la mente di
Aleksandra non poteva abbandonare il posto con la stessa rapidità,
e mentre la piccola Valbona dormiva profondamente nelle sue braccia
fatte di tenerezza, lei si voltò verso Valona, prima che
la buia pianeggiante distanza la inghiottisse non lasciando più
nulla di visibile ai suoi occhi. Sulla sua destra vide una catena
di montagne, dolci e maestose, sulla sua sinistra invece il paesaggio
era più morbido e una lunga striscia di terra piatta con
due gobbe finali separava il mare dalla gran laguna. Valona, trapuntata
da minuscoli punti luminosi, esibiva, fiera, le sagome dei palazzoni
in costruzione; e mentre i ricordi dell’infanzia affollavano
alla mente di Aleksandra, tentò di sorridere ma le sue
labbra si rifiutarono e rivide il volto che sua madre Albana levò
al cielo, le mani congiunte e tremanti, e l’angoscia di
tutta la persona nell’apprendere che sua figlia stava per
attraversare il mare come aveva fatto Enver. Allora, una lacrima
che si era a poco a poco raccolta nell’angolo delle palpebre,
fattasi abbastanza grossa perché cada, le rigò la
guancia poi si fermò in bocca e Aleksandra ne sentì
il sapore amaro. Chiuse gli occhi per non vedere o piuttosto per
abbandonarsi all’onda dei sentimenti frammisti d’infantili
ricordi e di speranze informi come fantasmi che la vista di Valona
le suscitava, ma nella ressa dei suoi pensieri, in gara con il
sommovimento del gommone, sempre in primo piano rimanevano il
mare e le sue preoccupazioni. Tornò più volte, con
un incessante singhiozzo nel cuore, a volgersi verso la terra
sempre più lontana, con Valbona stretta al petto, prima
di addormentarsi, non proprio del tutto da non udire il ronzio
del motore e le voci, senza distinguere le parole.
Ridestatasi a mezzo da quel lungo e scomodo dormiveglia, scoperse
che il gommone era fermo nella distesa lugubre. Alla prima si
credette vittima di un’allucinazione, poi la ragione la
convinse della paurosa realtà mentre, ad occhi spalancati
nella luce di una sottile falce di luna, girava lo sguardo per
la galleria delle facce dall’espressione così dura
che nasce dall’abitudine alla sofferenza.
— Perché
siamo fermi? — Domandò a Gezim mentre s’impadroniva
di lei la strana sensazione che ciò fosse già accaduto
prima, in un tempo indeterminato, e che sapeva in anticipo quanto
stava per dire.
— Abbiamo
un motore in avaria — rispose Gezim con una voce arrochita
dall’angoscia e che si sentiva appena.
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