«Auguri», disse a Bruno nascondendo tra le pieghe
della voce la certezza che si sarebbero rivisti, che lui l'avrebbe
richiamata magari più tardi o al più domani. E questo,
Bruno lo intuì. Ma in fondo non gli andava nemmeno di distruggerle
quella illusione: troppa fatica. Poi la vide prendere lo zaino
senza asciugarsi i lunghi capelli e andare via, naturalmente con
il passo di chi sa di tornare.
A Bruno rimase un
"grazie" impigliato nel palato, e finalmente fu solo
a confrontarsi con quell'illusione che era svanita. Non l'avrebbe
festeggiato il suo compleanno, anzi, avrebbe lasciata inserita
tutto il giorno la segreteria telefonica, per evitare che qualche
amico o amica, con la scusa di fargli gli auguri, lo coinvolgesse
in una serata nostalgica in cui celebrare il definitivo ingresso
nella maturità. Già se l'immaginava. Gli avrebbero
invaso casa tutti quegli splendidi quarantenni in carriera alcuni
dei quali, e lui non era da meno, sommersi dai soldi ma ancora
capaci di perdersi dentro i cinici intellettualismi o ideologismi
di vent'anni prima. La nuova generazione di borghesi plasmata
sul modello dei giovani progressisti newyorchesi over quaranta:
tutti molto trend, molto snob, molto finemente intellettuali e
intolleranti al punto giusto. Amanti delle espressioni più
estreme e innovative dell'arte, ma solo perché non in grado
di coglierle nella loro essenza di bluff. Per loro l'artista è
necessario, tanto più lo è quanto meno è
comprensibile. Altrimenti di cosa si parlerebbe. Una generazione
che si è lasciata alle spalle le emozioni perché
di quelle non si può parlare, bisogna viversele addosso
e bruciarle dentro. Una generazione per la quale ciò che
conta è la novità, o addirittura basta la notizia
della novità. Bruno non aveva nessuna intenzione di passare
una serata così, né di ricevere festeggiamenti.
Decise di radersi,
lui che portava la barba da quindici anni. E allo specchio scoprì
lentamente un volto ancora giovanile, con sulle labbra quella
maliziosa smorfia da adolescente che faceva tanto impazzire le
sue compagne di liceo. Tagliò via anche i baffi e, con
loro, anni di adeguamento a stereotipi generazionali. Si infilò
sotto la doccia e, mentre l'acqua gli lavava via l'odore di quella
notte, decise che avrebbe cambiato l'arredamento di casa. Tutto.
Voleva sentirla davvero sua quella casa. Gli sembrava il primo
passo. Piccolo ma importante. Avrebbe salvato solo la poltrona
svedese dello studio e la lampada giapponese del salotto. Il resto,
via. Ma tutto questo non poteva farlo subito, visto che era domenica.
Ovvero, avrebbe potuto, ma gli sembrò più giusto
rimandarlo a un altro giorno. Si asciugò, e ricordò
con quanto trasporto seduttivo una delle sue tante donne gli aveva
regalato quell'accappatoio. Era riuscita a entrargli in casa senza
che lui lo sapesse, con la complicità della donna di servizio;
aveva preparato una cena e si era fatta trovare sotto la doccia.
Poi era uscita avvolta nell'accappatoio e, mentre lui l'aspettava
a tavola, se l'era tolto, dicendogli che era per lui. Che però
vi sarebbe rimasta impressa per sempre l'armonia del suo corpo,
e lui l'avrebbe sentita addosso ad ogni doccia. In realtà
dopo... cinque, quattro anni forse, l'armonia di quel corpo la
sentiva solo adesso e non per i motivi che lei avrebbe voluto.
Poi cenarono, e lei rimase nuda davanti a lui per tutta la cena.
Come si chiamasse non lo ricordava bene, ricordava con che naturalezza
stava nuda: ma perché se n'era innamorato? Ah, sì...
era il periodo in cui lo attraevano le donne di successo, quelle
con le palle e la carriera... E lei ne era un po' la quintessenza,
visto che oltre a essere molto bella era anche un avvocato di
notevole successo, con studio nel quartiere più esclusivo
della città e clientela a nove zeri. Si chiamava Rita.
Forse si trattava del fascino del dominio verso chi nella vita
domina gli altri. E l'aveva fatta innamorare, eccome... Poi ovviamente
si era stufato, rimettendosi alla ricerca di un altro ideale femminile.
Ovviamente. Un avverbio racchiudeva così bene oltre vent'anni
di amorazzi illusori e fallimentari? Ovviamente sì.
Bruno gettò
via l'accappatoio, rinunciò al caffè e si vestì.
I due terzi del suo guardaroba erano frutto di pomeriggi liberi
passati in centro con la donna di turno a girare per negozi, e
inevitabilmente lasciare che fosse lei a scegliere cosa gli andasse
meglio addosso. Ebbe un moto di nausea. Scansò questa volta
con rabbia ciò che aveva davanti, e indossò alla
fine un paio di jeans sdruciti che non metteva da anni e che era
certo di aver comprato da solo, senza suggerimenti, quando frequentava
l'università. Poi trovò una maglietta dello stesso
periodo, un po' scolorita ma per questo più affascinante.
Ebbe il tempo di incrociare la sua immagine allo specchio. Chi
gliel'aveva regalato quello specchio? Forse un'altra donna, o
alcuni amici... non se lo ricordava neanche più, ma non
era importante. In quell'incontro con se stesso non premeditato
gli scappò di pensare un "però!...", vedendosi
così poco cambiato nell'aspetto di quella domenica di definitiva
maturità dal giovane studente di filosofia che era stato.
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